Ho bisogno che tu ci sia – Capitolo 42: Non è finita qui
«Ne sei sicura?», mi chiese Jones scrutandomi.
Ne ero sicura? «Non lo so, ma lei deve sapere pur qualcosa. Ho litigato con lei nell’ultimo periodo, un paio di volte. Non riusciva a comprendere che il suo ragazzo, Mark Lewis, fosse un pezzo di merda e che la tradiva con ogni ragazza che avesse davanti.», spiegai stringendomi il collo in un gesto di stanchezza.
Per un attimo pensai a Maya. Lei si era innamorata di lui, nonostante fosse un pezzo di merda, avesse già una relazione e andasse dietro ogni ragazza che potesse dargliela. Quel ragazzo era un casino, un caso umano davvero strano. Non giudicai e né incolpai la mia amica per quello che provava per lui. L’amore è folle, pensai.
«Va bene.», disse e scrisse il nome di Karla sul foglio cerchiandolo più volte. «Hai in mente qualcun altro?»
Scossi la testa ma al con tempo non ne ero sicura. Feci per aprire bocca ma fui bloccata dalla porta che si spalancò di colpo.
«Il vostro tempo è finito signorina Stone.», tuonò la Fairchild con gli occhi velati di rabbia.
Jones non si voltò, alzò lo sguardo verso il mio. «Per il momento ho terminato con la mia cliente e credo di aver preso le mie conclusioni.», disse con tono fermò, così sicuro di se.
«Bene.», strinse le labbra in una linea dura. «Io devo continuare il mio lavoro, ho perso già più tempo del dovuto.» Lo disse senza alzare lo sguardo su di me. C’era qualcosa di strano adesso in lei. Il suo sguardo non ostentava quella determinata sicurezza che aveva sempre avuto nei miei riguardi.
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso alla parete e constatai che erano passate più di due ore e mezza da quando avevo iniziato a parlare con Jones.
La detective entrò nella stanza con due falcate e aspettò che Jones si fosse alzato dalla sedia per occupare il suo posto. «Grayson facciamo accomodare l’avvocato Jones, non vogliamo essere scortesi.», alzò di più la voce e scoccò un’occhiata di sfida al mio avvocato.
Il poliziotto entrò veloce con una sedia e la posizionò al mio fianco facendo un segno col capo a Jones che poteva accomodarsi.
«Oh grazie.», mormorò lui, «Siete molto più che gentili.», disse ironico, accomodandosi al mio fianco e senza degnare di uno sguardo la Fairchild.
Quello scambio di battute mi fece sorridere e mi fece allentare un po’ la presa salda che avevano i miei nervi sul mio corpo.
In quel momento fui certa che con Jones accanto a me avrei potuto finalmente sbattere la verità in faccia alla donna che provava per me un sentimento alquanto ostile e che anche dalla mia parte non era da meno.
«Voglio metterla al corrente che lei non è l’unica che verrà interrogata. Ho mandato dei miei agenti a bussare alla porta di ogni singolo amico che fa parte della sua combriccola.», disse quella frase sottolineando la parola combriccola in tono sprezzante, e per la prima volta da quando era entrata di nuovo nella stanza mi guardò negli occhi.
Credeva che avrei provato a difendere i miei vecchi “amici”? Si sbagliava di grosso, non li avrei difesi e non avrei difeso nemmeno me. Poteva pensare qualsiasi cosa di me, mi importava solo di una cosa: che la smettesse di pensare che io fossi colpevole di aver nascosto della droga in casa mia.
«Vogliamo continuare da dove abbiamo interrotto?», le risposi, esortandola a proseguire, con un tono che più una domanda era un’affermazione.
“Ha mai fatto uso di droghe?” Era stata questa la domanda che mi aveva posto poco prima che Jones ci interrompesse circa tre ore prima.
Non fece alcun cenno di cambiamento di espressione, con lo sguardo impenetrabile. «Non ha toccato il suo caffe.», constatò alzando un sopracciglio.
Adesso non aveva più così fretta di colpevolizzarmi?
Non avevo sete e di certo non avevo nemmeno fame. Il mio stomaco era un groviglio di nervi.
«No, non ho mai fatto uso di droghe, almeno non di quelle pesanti.», le risposi secca io, senza alcuna esitazione.
Lei mosse il capo impercettibilmente, ma rimase in silenzio senza interrompermi.
«Ho iniziato a fumare sigarette all’inizio del primo anno, solo l’anno dopo mi sono spinta oltre, prima il fumo e poi l’erba. Alle feste, nei parcheggi, in macchina, qualche volta persino nelle gradinate dei campi da football della scuola. Ma non tocco quella roba da mesi ormai.», confessai. «Ma no, non ho mai toccato in vita mia della droga. E visto che sono stata accusata e da quello che mi ha fatto capire, sono stata accusata dal signor Lewis, parlerò.», alzai il mento in segno di sfida.
Era stato Mark a colpevolizzarmi di possesso di droga. Ormai non aveva nulla da perdere. Era stato accusato di tentato omicidio e violenza contro Maya, un’altra accusa non gli avrebbe fatto niente.
Io invece cosa avevo da perdere? Tutto, pensai.
«Se sta cercando qualcuno che fa uso di droga e che ne è in possesso, può rivolgersi al signor Lewis e al suo migliore amico Beau Kessler.», dissi in tono duro. Se qualcuno era colpevole, erano loro. «Non mi stupirei se la spacciassero, data la quantità che avete trovato nascosta – a mia insaputa – in casa mia.»
La detective fece un sorrisetto che si trasformò in un ghigno. «Oh cara Allison, io so che il signor Lewis fa uso di droghe, e questo me lo confermano le analisi cui lo abbiamo sottoposto.»
«Mi sottoporrò alle analisi anch’io se questa è l’unica prova che potrà dimostrarle la mia innocenza.», dissi subito, senza pensarci.
«Non dire sciocchezze Stone!», si intromise Jones, guardandomi con uno sguardo truce. Si fece avanti con il busto e si rivolse alla donna. «La mia cliente non farà nessun tipo di analisi. Lei non la obbligherà e io non glielo permetterò.», sibilò tra i denti. «Non ha presentato nessuna prova che possa incastrarla. E trovare quella busta in casa sua non la rende colpevole. È stata incastrata e lei lo sa benissimo.», quasi sembrava la stesse accusando con quelle parole.
E gli occhi sgranati che ci mostrò la Fairchild lo confermarono. «Si,», disse abbassando lo sguardo e schiarendosi la voce, «ha ragione. Ma abbiamo trovato delle impronte nella busta e la mia squadra le sta esaminando. Ma con questo non vuol dire che lei non sia colpevole.», questa volta rivolse lo sguardo verso di me con occhi infuocati.
Si alzò di scatto dalla sedia, si voltò di spalle e poi mi puntò un dito contro. «Io li conosco i tipi come lei, ne ho visti tanti durante la mia carriera. Con la faccia d’angelo, un passato alle spalle tremendo e uno spirito sfacciato. Lei non è quello che mostra, lo vedo nei suoi occhi che nascondono tante cose.», incrociò le braccia al petto e assottigliò gli occhi, continuando il suo discorso. «Cosa mi dice della signorina Davis? Non vi parlavate da tanto tempo e poi la incontra nei bagni a piangere e qualche ora dopo la ritrova riversa in un bagno di sangue per colpa di Mark.»
Cosa diavolo stava insinuando?
«Poi ci siamo incontrate in ospedale mentre la signorina Davis era sotto operazione e, guarda caso lei è arrivata a conclusione che Davis avesse una relazione con Lewis.», continuò senza staccare i suoi occhi dai miei.
Jones al mio fianco si agitò. «Cosa sta cercando di dire con questo?», le parlò con un tono che mi fece venire i brividi.
Io invece ero immobile, non riuscivo a credere che quella donna potesse essere arrivata a tali conclusioni.
«Sto dicendo che la sua cliente può essere colpevole di possesso di droga, tanto quanto essere coinvolta nel tentato omicidio della signorina Davis, aiutando Mark.», non ebbe nessuna esitazione nel dirlo, come se quel pensiero era da tempo che le affollava la mente.
«Oddio.», gemetti. «Come può pensare una cosa del genere?», dissi in tono stridulo. Avrei voluto urlare ma dalla mia bocca non usciva nemmeno una parola.
«Cosa?», alzò la voce Jones, incredulo quanto me. «Ma riesce a capire le idiozie che le escono dalla bocca?», la accusò questa volta, facendo un gesto veloce della mano verso il capo facendo intendere che fosse pazza.
«Avvocato Jones si calmi.», urlò lei ringhiando. «Quella volta in ospedale quando l’ho vista, ha detto che stava parlando con il suo ragazzo. Era Mark? E non mi menta!», si sporse verso di me con gli occhi sgranati.
Cosa? «No!», mi difesi. «Non era Mark!», alzai la voce anch’io.
«Non si rivolga così alla mia cliente!», urlò Jones alzandosi dalla sedia.
Mi sentivo un misero essere in confronto ai due titani che fumavano di rabbia.
«Oh, non era lui?», mi sbeffeggiò facendo una risata amara.
Ero nervosa, le mie mani tremavano e cercai di nasconderle mettendole sotto le cosce e farmi venire in mente qualcosa da dire. «Non ho una relazione.», fu l’unica idea che riuscii a trovare e provai a mascherare il panico nella voce assumendo un tono acido. «Non ho tempo per delle stupidaggini, sono troppo impegnata con lo studio per pensare ad un ragazzo. Sono appena stata accettata alla Columbia.», sputai quelle parole di getto sperando che potessero passare totalmente vere.
A quell’informazione che avevo sganciato fui accolta con un’espressione di sorpresa dalla Fairchild e un “davvero” sussurrato da Jones.
«Ho aperto la lettera qualche ora prima che lei venisse a prelevarmi da casa mia con la forza.», le dissi alzando lo sguardo.
I suoi occhi adesso, con il velo di insicurezza che avevano preso mi fecero sentire con la situazione in pugno. Poco dopo però dovetti ricredermi.
L’agente fece un passo indietro, scosse la testa e continuò come prima a sputare accuse nei miei confronti. «Io non le credo. So per certo che lei è invischiata in tutta questa situazione. Tutte le volte che l’ho vista in ospedale ha sempre schivato il mio sguardo e le mie domande. Tutte le volte che l’ho vista parlare con Maya l’ha sempre guardata con occhi finti, continuando a parlare al telefono con il signor Lewis e incoraggiandolo ad allontanarsi dalla città.»
«La smetta!», le intimò Jones.
«Smetterla? Oh avvocato, lei non sa con chi parla. La farò marcire in questa stanza se la sua cliente non vorrà sputare la verità da quella bocca.», il suo tono era di puro odio.
Cosa diavolo le avevo fatto per avercela così tanto con me?
«Sembra così affranta per la morte della sua famiglia, ma in realtà lo sappiamo tutti che in quella mente crede che sia stato un bene che siano morti così prematuramente.», disse con superficialità ridendo amaramente.
Quelle parole mi colpirono al cuore come fossero delle lame. Come osava parlare in quel modo di me e della mia famiglia?
«Basta! Stia zitta. La smetta!», urlai mettendomi in piedi di scatto facendo cadere la sedia per terra per la velocità e la forza con cui mi ero alzata. «Si rimangi tutto quello che ha detto!», urlai. «Lei non mi conosce, e non conosce la mia famiglia, come osa parlare di loro in questo modo? Sa solo lanciare accuse su accuse, e colpevolizzarmi quando là fuori ci sono tantissime persone che commettono reati e aspettano di essere arrestate e lei continua a perdere il suo tempo prezioso con me.», finii con un tono che tradì la mia totale stanchezza.
Non avevo più la forza di continuare ad urlare, volevo tornare a casa e ficcarmi nel letto senza più uscirne. Volevo che tutto questo finisse. Mi sembrava di essere rimasta incastrata dentro un incubo che non aveva fine.
«Adesso mi prende pure in giro signorina Stone?», alzò un sopracciglio con sguardo indignato. «Con chi crede di avere a che fare?», mi accusò con tono tagliente.
«Le ho detto di smetterla di parlare così contro la mia cliente.». Mi voltai verso Jones, aveva una profonda ruga sulla fronte e labbra strette in una linea sottile. «È passibile di denuncia per tutte le accuse che le sta scagliando contro senza avere delle prove concrete. Sta facendo parecchio male il suo lavoro e non se ne sta rendendo nemmeno conto.», Jones vicino a me restò poi calmo guardandola fissa negli occhi. Aveva intenzione di vincere quella battaglia tanto quanto me.
«Sto facendo parecchio male il mio lavoro?», rise. «Oh avvocato potrei lasciarla con il culo per terra e senza più il suo lavoro se solo continuasse a parlare. Quindi non mi venga a dire certe cose.», incrociò le braccia al petto in segno di sfida. Aspettava che Jones le rispondesse a tono.
Ma accadde l’opposto. Jones si chinò per terra per raccogliere il mio cappotto che fino a qualche momento fa era appeso alla spalliera della sedia e me lo mise in una mano. Prese la sua valigetta e poi con gentilezza strinse la sua mano sul mio gomito e mi spinse contro di lui. «Allison non dirai un’altra parola, non finché non avranno portato le prove della tua innocenza.», mi guardò dritto negli occhi con una grande determinazione e una piccola scintilla di dolcezza.
Quell’uomo non mi conosceva affatto, ma mi stava difendendo con tutta la sua forza e credeva in me totalmente. Gli fui così grata e pensai che, anche se Richard doveva avercela con lui per qualche motivo, doveva davvero fidarsi di lui e del lavoro che sapeva fare. In quel momento ripensai a Richard. Era a lavoro? Stava pensando a me? Era preoccupato? Arrabbiato? Doveva esserlo. Gli avevo nascosto tutto e adesso lo avevo coinvolto in quel casino che mi portavo a presso. Anche la nonna doveva essere totalmente arrabbiata con me. Il suo volto deluso mi si ripresentò davanti e quasi fu come un pugno allo stomaco. Avrei dovuto parlarle una volta che tutto questo fosse finito.
«Allison?», mi chiamò Jones preoccupato abbassandosi per guardarmi dritto negli occhi. «Stai bene? Sei pallida.»
Annuii più volte con la testa. «Si sto bene.», quella era una grande bugia. Sentivo che da un momento all’altro sarei potuta cadere per terra.
«Forse è meglio che ti siedi.», mi intimò. E qualche momento dopo la sedia era stata di nuovo messa al suo posto e io ero stata fatta accomodare di nuovo in quel pezzo di plastica dura.
Passarono dei minuti interminabili colmi di un silenzio assordante. Né la Fairchild né Jones parlavano, intenti com’erano a fissarmi.
Fui io alla fine a rompere il silenzio che mi stava tormentando. Mi portai la mano al collo e strinsi la collana della mamma per darmi forza. «Non so perché lei pensa tutte queste cose su di me.», mi rivolsi alla Fairchild, senza mostrare più alcuna resistenza. Mi ero promessa che avrei mantenuto un atteggiamento sicuro e duro mostrando il mio lato più oscuro, ma tutto ciò era andato a farsi fottere già da un po’. Ormai rimaneva soltanto il mio coraggio e mi affidai a lui. «Non sono la persona che lei ha disegnato nella sua testa, pensa che io sia cattiva e in qualche parte del mio cervello sia contenta che i miei genitori siano morti.», feci un sorriso tirato che parve più una smorfia e poi la guardai dritta in quei suoi occhi impenetrabili. «Non sa nulla su di me e né della mia famiglia e non potrà mai comprendere quanto faccia male crescere senza una mamma o un papà o un fratello a cui affidarsi.», abbassai lo sguardo e poi lo alzai di nuovo schiarendomi la voce. «Un paio di mesi fa ho scoperto di essere stata in coma per giorni dopo l’incidente che mi ha strappato via la mia famiglia. Mi creda vorrei essere morta anch’io. Ogni giorno che passa senza loro al mio fianco, non so come, ma riesco a credere di essere ancora in vita anche dopo aver combattuto contro la morte. Però sono ancora qui e sono grata per quello che ho, lo sono ogni girono.»
Quelle parole dovevano averla colpita perché i suoi occhi si abbassarono sulle mie mani che stavo stringendo in un pugno e quando si posarono di nuovo sul mio sguardo avevano quella insicurezza che avevo notato quando poco prima era rientrata da quella porta.
«Pensi pure ciò che vuole, ma non sono coinvolta insieme a Mark nell’aggressione contro Maya, né ho una relazione con lui e tanto meno faccio uso di droga e la nascondo in casa mia.», le dissi con un tono sconfitto, sperando che potesse per una volta credermi. «Ho fatto cose di cui mi pento, sbagli che non si possono recuperare e ho ferito tutte le persone che mi amano. Ma non farei mai del male ad una persona, non sono così tanto coraggiosa da spingermi oltre e fare del male fisico.», conclusi confessando tutto quello che avevo da dire.
Dopo quel momento ci furono attimi di silenzio scanditi solo dal mio respiro pesante e dal ticchettio dell’orologio. Tutto in torno era fermo e chiusi gli occhi forte e sperai che l’agente non continuasse a buttarmi parole addosso.
Poi sentii la porta aprirsi ma non alzai lo sguardo. «Detective Fairchild il tuo lavoro qui è finito.», fu la voce di un uomo a parlare.
«Cosa?», sentii chiedere dalla donna con tono sorpreso.
«Prenderò io il tuo posto.», disse la voce, sentivo una nota di divertimento.
«Ma cosa? Io non ho ancora finito qui!», rispose lei stizzita alzando il tono della voce.
«E invece sì. Abbiamo raccolto tutte le prove che ci servono, è inutile perdere ancora tempo ed è quello che stai facendo tu da circa un’ora contro questa ragazzina.», rispose la voce seria.
«Signorina Stone si rilassi, lei non è colpevole, non ha commesso nessun reato.», si rivolse questa volta a me.
Alzai veloce il capo stordita. «Cosa?», mormorai piano, non sicura di aver sentito bene.
«Abbiamo tutte le prove che ci servono e nessuna di queste è in qualche modo collegata a lei.», l’agente mi guardò con occhi seri ma comprensivi. Era un uomo di mezz’età, con un’aria potente, di sicuro doveva essere un superiore della Fairchild.
“lei non è colpevole” Sentii quelle parole rimbombarmi nella testa e il mio petto che si sgonfiava per tutta la tensione trattenuta. Non ero colpevole e finalmente qualcuno lo aveva capito. Avevano trovato le prove. Quali prove? Forse le impronte che aveva detto la Fairchild erano di Karla?
«Roch ma cosa stai dicendo questo caso è mio, non puoi prendere tu il comando.», la donna si rivolse al collega con tono nervoso.
Roch sbuffò e la guardò con sguardo ammonitore. «Hai gestito questo caso troppo male, prendendo conclusioni sbagliate e affrettate, con troppo coinvolgimento e non portando rispetto alla ragazza che ti sta davanti.», disse facendo un gesto nella mia direzione. «Dovresti proprio scusarti.», aggiunse serio, quello era proprio un ordine.
Aspettò qualche secondo che la collega facesse ciò che lui le aveva ordinato ma invece di rivolgersi a me, la Fairchild si voltò infuriata e uscì dalla stanza.
Guardai tutta quella situazione allibita, senza parole e anche Jones al mio fianco doveva aver avuto il mio stesso pensiero con la fronte corrucciata in quel suo bel viso pulito.
Una risata fragorosa mi strappò ai miei pensieri facendomi voltare verso l’agente Roch.
Lo vidi scuotere la testa, dai cappelli corti e scuri, con enfasi. «Quella donna è tutta matta.», mormorò tra sé.
Poi come se si fosse ricordato di me e del mio avvocato si voltò di scatto e allungò una mano. «Sono il detective Roch.», la strinse prima a me e poi a Jones che si presentò.
«Mi dispiace davvero tanto per tutto quanto accaduto con la mia collega.», il suo volto si oscurò. «Si è fatta coinvolgere troppo e questo è un errore che non si può commettere con il nostro mestiere, mi scuso molto per le parole che ha dovuto subire.», era sincero.
«Non si preoccupi, non è colpa sua.», gli risposi. Se quella donna era una stronza acida e crudele non era mica colpa di qualcuno. Una scopata non le farebbe male, pensai e trattenni una risata per non sembrare una pazza che rideva in un momento così serio.
«Beh», batté le mani e le sfregò tra di esse, «che ne dice di lasciare questa stanza signorina Stone? Prego seguitemi, devo mostrarvi alcune cose.», disse voltandosi e facendo un gesto con la mano verso la sua direzione.
Uscire da quella stanza mi parve un sogno, avevo trascorso ore interminabili là dentro e respirare dell’aria diversa mi fece quasi male.
Io e Jones, sempre al mio fianco quasi come fosse ormai diventato la mia ombra, seguimmo il detective in un lungo corridoio pieno di porte e stanze per poi arrivare nella sala d’attesa, la stanza principale.
La prima cosa che notai fu la luce, tanta luce che entrava dalle enormi vetrate che davano sulla strada. La luce di metà pomeriggio era resa grigia dalla pioggia che ancora continuava a cadere. E poi notai una tale confusione, tanti agenti che andavano a destra e a sinistra impegnati in chissà cosa. E poi sentii chiamare il mio nome.
«Allison.», il tono che parve un piccolo lamento mi fece voltare alla mia sinistra.
La nonna era in piedi in mezzo a una grande sala d’attesa e mi si spezzò il cuore. Il suo voltò era una maschera di preoccupazione, con le rughe della vecchiaia e di espressione a marcarla. Gli occhi iniettati di sangue, sicuramente dal continuo pianto. Stringeva le mani al petto che le tremavano e il suo aspetto non era sicuro e dolce e sistemato come sempre. I suoi capelli biondi morbidi erano raccolti in una coda semplice e i suoi vestiti, un cardigan sopra una camicia e i jeans, erano tutti stropicciati.
Non pensai minimamente alle conseguenze e alle occhiate di ammonimento dei poliziotti, quando le corsi velocemente in contro per abbracciarla. Quasi la stritolai con la mia presa forte. Sembrava essere diventata più piccola nel giro di una notte, riuscivo a ricoprire il suo corpo interamente con il mio, mentre il suo solito odore di pasta di dolci e il suo calore mi circondavano e mi facevano rilassare contro di lei. «Nonna.», riuscii a mormorare con un nodo in gola.
Lei iniziò a singhiozzare sommessamente. Aspettai qualche secondo che si calmasse mormorandole all’orecchio «Mi dispiace. Shh.», e accarezzandole la schiena con una mano. Sperai che capisse quanto mi sentivo in colpa per tutta la sua preoccupazione, e per tutti gli errori e le bugie che avevo commesso. Quel “mi dispiace” era soprattutto per averle nascosto di Richard.
Il nostro momento fu interrotto dal detective Roch che chiamò un paio di volte il mio nome. Poi sentii una mano sulla mia spalla. «Stone.», mormorò piano una voce maschile che collegai subito a Jones.
Mi staccai con riluttanza dalla nonna feci un segno di scuse a Jones e al detective, e riportai l’attenzione alla nonna.
Le strinsi forte il volto tra le mie mani e la guardai intensamente negli suoi occhi scuri che quasi dal pianto sembravano essere diventati caramello. «Nonna è tutto okay.», le dissi asciugandole le lacrime con i pollici, «Basta piangere.», le intimai. Poi presi un respiro, «Non sono colpevole, te lo avevo detto, non andrò in galera.» La sentii sciogliersi sotto il mio tocco. «Hanno trovato delle prove e a quanto pare nessuna di questa mi collega all’accusa. Andrà tutto bene.», le posai un forte bacio tra i capelli per suggellare la mia promessa.
Poi mi staccai da lei e guardai alle sue spalle. Maya era seduta proprio sulla sedia accanto, con il viso paonazzo e le mani saldamente strette alla seduta. Il suo sguardo era vitreo, come se avesse visto un fantasma e, non mi ci volle molto per seguire la sua stessa direzione e spostarlo sopra la persona che stava fissando.
Mark era a qualche metro di distanza da noi mentre camminava verso una stanza, spinto dalle spalle da due agenti, mentre i suoi polsi erano ammanettati. Anche lui la stava fissando con i suoi occhi scuri spenti e un ghigno sulle labbra. Il suo aspetto era trasandato, con la folta barba e i vestiti tutti stropicciati e strappati. Poi ebbe uno scatto, come se si fosse accorto che anche io, adesso, lo stavo fissando. La sua espressione cambiò totalmente. Il suo ghigno si trasformò in un enorme sorriso che contagiò anche gli occhi che da spenti iniziarono a brillare di divertimento. Poi si fermò di colpo facendo forza contro i due poliziotti e si voltò con l’intero busto nella mia direzione. «Stone! Quanti grammi ti servono?», disse urlando e poi scoppiò a ridere con gusto facendo voltare moltissime persone dentro quella stanza.
Quelle stupide parole mi fecero ribollire le budella e torcere lo stomaco. In due secondi mi ritrovai a meno di mezzo metro dalla sua maledetta faccia con il pugno sospeso a mezz’aria per colpirlo. Ma qualcosa mi aveva bloccata. Jones mi teneva per la vita con una mano e con l’altra teneva fermo il mio polso stringendo molto forte perché anch’io stavo facendo resistenza contro di lui cercando di liberarmi. Il mio viso doveva essere rosso di rabbia perché avevo iniziato a sentire caldo, mentre i miei denti stringevano con forza tra di essi.
«Per quanto voglia che tu lo faccia,», cominciò a sussurrarmi Jones al mio orecchio, «non ti lascerò colpire questo coglione. Non voglio che tu possa combinare casini di cui poi potresti pentirtene.»
Non risposi. Aspettò qualche secondo che io controllassi la mia forza e poi si allontanò da me. Aveva ragione, non ne valeva la pena e per quanto volessi spaccagli il naso un’altra volta per fargli provare dolore, quel verme si era già rovinato la vita andando a finire in carcere.
Guardai quella sua faccia di merda ancora una manciata di secondi e sperai di non vederla mai più in vita mia. «Spero marcirai in una cella di merda senza nessuno.», gli sputai quelle parole come fossero veleno e girai sui tacchi.
Mi incamminai verso Maya che era rimasta incollata alla sedia con il viso paonazzo e sguardo assente.
«Non è finita qui!», sentii urlare alle mie spalle. «Un giorno uscirò da quella merda di posto e verrò a cercarti! Verrò a cercarvi entrambe e per voi sarà la fine.», urlò forte con la voce che gli diventò roca per la rabbia.
Vidi la mia amica tremare a quelle parole e chiudere gli occhi, forse per dimenticare le parole appena sentite.
Mi precipitai subito da lei prendendole le mani tra le mie mentre sentivamo il detective Roch abbaiare ordini di portare via Mark.
«Maya.», la chiamai piano.
Fece un grande respiro e poi guardò nei miei occhi mostrandomi un sorriso. «Sto bene.», disse decisa.
Perché quella ragazza doveva sempre fingere che andasse tutto bene? Era così testarda.
«Sei sicura?», le chiesi ricambiando il suo con un mio sorriso mesto. Non volevo forzarla a parlare.
Annuì con energia. «Si si, tranquilla voglio solo andare a casa. Ma io e tua nonna vogliamo aspettarti prima di andare. Va’», fece un cenno verso le mie spalle stringendomi le mani. «fa presto.»
Annuii io questa volta e feci come mi disse. Tornai sui miei passi e poi seguii Jones e Roch attraverso un lungo corridoio.
Lì alla mia destra trovai una grande stanza da riunione a vista con le grandi vetrate alte fino al tetto. Ma, aggrottai la fronte appena li vidi.
Lì dentro erano presenti alcuni dei miei vecchi “amici”, tra cui Karla, Beau e Marta. Rimasi stupita nel notare una cosa. La ragazza che pensavo mi avesse incastrata era seduta in una sedia a un capo del tavolo con vicino Beau, mentre Marta era proprio al capo opposto. E infine notai un particolare che mi fece dubitare di tutte le mie sicurezze. Karla aveva le mani sopra il tavolo con lo sguardo rivolto alle sue unghie che stava torturando. Beau invece si mordeva il labbro inferiore con lo sguardo cupo mentre sotto il tavolo stringeva le mani in pugno con i polsi ammanettati. Poi fissai Marta, anche lei aveva i polsi, posati sopra il tavolo, ammanettati.
Il detective doveva aver catturato il mio sguardo, intento a fissare quella scena non riuscendo a capire, perché mi diede una spiegazione. «Non è stata la signorina Drope a incastrarla.», confessò e il mio sguardo saettò sul suo. «È stata proprio lei a farlo.», lo disse indicando un punto e quando seguii la traiettoria rimasi allibita.
«Ma come? Lei…», non sapevo che dire. No, non poteva essere stata lei.
«Abbiamo le prove delle telecamere stradali che le mostrerò tra poco. E le prove parlano chiaro al 100%.», spiegò. «È stata proprio la signorina Marta Taylor a introdurre in casa sua la busta di droga.»
Marta? La dolce e gentile Marta mi aveva incastrato? Ma perché?
Come se avesse sentito la mia presenza si voltò verso la nostra direzione e il suo sguardo mi congelò. Odio. Vedevo puro odio nei miei confronti in quegli occhi chiari che un tempo mi avevano rivolto gentilezza. Anche Maya si voltò a guardarmi e mi stupii nel trovare uno sguardo perso e vuoto. Cosa le era successo? Beau invece sembrava totalmente perso da qualche parte nei suoi fitti pensieri.
«Signorina Stone prego mi segua le spiegherò tutto.», il detective fece un gesto della mano intimandoci di seguirlo avanti.
Camminai dietro di loro consapevole dello sguardo di veleno di Marta oltre la mia schiena. Il mio cervello iniziò a elaborare delle ipotesi, delle spiegazioni a quel gesto nei miei confronti, ma non riuscivo a trovarne nemmeno uno possibile. Gelosia? No, non credevo. Un gesto che avevo fatto offendendola? No, nemmeno quello. Non riuscivo proprio a capire.
I momenti che si susseguirono dopo mi lasciarono stordita.
Il detective mi spiegò tutto per filo e per segno dopo che, per dar ancora di più validità alle prove, prelevò le mie impronte digitali, che gli sarebbero servite per evidenziare che quelle trovate sopra la busta requisita non erano le mie.
Era stata Marta a incastrarmi e finalmente ne fui consapevole quando mi furono mostrate le registrazioni delle telecamere. Le immagini risalivano a qualche giorno prima dell’uscita di Maya dall’ospedale. Era tarda serata e in casa non era ancora rientrato nessuno, quando nel fotogramma in bianco e nero in basso a destra comparve un vecchio pick-up scuro. Riuscii subito a riconoscerlo era quello di Beau e la parte di targa che si riusciva a intravedere lo confermava. Mi aspettai che da un momento all’altro fosse uscito il proprietario del veicolo dal lato guidatore, ma quando uscì una figura minuta e incappucciata non fu difficile associarla a Marta. Portava una grande felpa che le copriva il capo ma le mani e il volto erano scoperti. Era difficile sapere chi fosse veramente, ma poco dopo si era fregata – inconsapevolmente – da sola; aveva ripetutamente scosso la testa da una parte all’altra per guardare la grande via e aveva mostrato il suo volto. Anche il movimento compulsivo di tenersi la pancia, dove sicuramente teneva la busta, l’aveva incastrata. Le immagini infine mi mostrarono Marta che forzava con un coltellino la serratura della porta di ingresso per poter entrare. E poi le ci vollero meno di cinque minuti per salire al piano di sopra, nascondere la busta e poi uscire da casa mia come se niente fosse, salire sul pick-up e correre via.
«Erano in combutta», si rivolse a me il detective quando mise pausa sul monitor.
«In che senso?», non capii.
«La signorina Taylor è andata a letto con lui parecchie volte.», mi spiegò.
Cosa? No, non pure con lei.
«La sua amica, la signorina Davis aveva scoperto tutto e li aveva minacciati di dire tutto sia al signor Kessler sia alla signorina Drope.», si strinse sulle spalle sedendosi in una sedia di fronte la mia.
«Quindi loro…», cercai di dire con mezza voce. La testa mi girava per tutte quelle informazioni.
«È per questo che il signor Davis ha aggredito la signorina Maya. Perché temeva che avrebbe potuto confessare tutto al suo migliore amico e a quella che è la sua ragazza ufficiale.», Jones diede fiato alle parole che io non riuscivo a pronunciare.
Sperai fosse tutto uno scherzo. Quella storia era assurda. Mark era davvero una persona con problemi. Aveva tradito più volte la sua ragazza con tante altre, con Maya e con la sua migliore amica.
Perché Maya non mi aveva raccontato niente? Ci pensai e arrivai ad una conclusione: lei non si fidava ancora abbastanza di me e aveva paura di rimanere ancora ferita e soffrire come già stava facendo.
Si era innamorata della persona più sbagliata al mondo. E capii che aveva paura. Aveva paura per me, per quello che avrei potuto passare con Richard. Ma lui non era Mark. Richard non era come lui. Lui era il mio Richard.
«Si proprio così. E adesso entra in scena lei Allison.», Roch alzò le sopracciglia e mi indicò. «Quando Lewis l’ha vista soccorre Maya non ci ha visto più e ha deciso di agire. Era ancora risentito per il bel regalino che gli aveva lasciato qualche settimana prima.», rise indicando il suo naso.
Annuii. Si, gli avevo spaccato il naso.
«Così ha deciso di coinvolgere ancora di più la signorina Taylor e metter su il piano per incastrarla. Peccato che non sia stata tanto furba, anche se tra i suo oggetti personali abbiamo trovato un coltello identico a quello con cui è stata colpita Maya.», commentò.
Il mio cervello si fermò, ci pensai su qualche secondo. «Avrebbero potuto fare del male anche a me.», mugugnai guardando i miei piedi per terra e sentendo dei brividi lungo la schiena.
«Si», sussurrò lui, «questa sarebbe stata la scelta peggiore, è stata molto fortunata Allison.»
Chiusi gli occhi e rividi il sangue per terra, il coltello conficcato nell’addome e poi vidi il mio viso colmo di lacrime, quel sangue era mio. Strinsi ancora di più i miei occhi e i miei pugni e poi vidi il volto di mia mamma, il giorno dell’incidente con le lacrime che scendevano e la sua voce a rassicurarmi che sarebbe andato tutto bene.
«Allison.», sentii chiamarmi.
Jones e il detective mi guardavano preoccupati. Non c’era da chiedermelo, non stavo bene.
«La prego posso andare a casa?», riuscii a mormorare con un filo di voce mentre sentii una lacrima bagnarmi il viso. Perché diavolo adesso stavo piangendo?
Roch mi guardò costernato e mormorò un “certo” per poi dire che mi avrebbe dovuto far firmare prima dei fogli di rilascio.
Asciugai in fretta la lacrima con il dorso della mano e poi lo seguii senza più guardare in faccia nessuno.
Non guardai Jones, né la nonna e né Maya. Sentivo solo le parole che mi rivolgeva il detective. Diceva che sarei dovuta ripassare per lasciare altre testimonianze, che avrei dovuto firmare altre scartoffie e roba del genere. Mi aveva concesso un giorno o due di pace prima che si sarebbe di nuovo fatto sentire, dopo ciò avevo il suo permesso e la sua giustificazione direttamente con il preside per aver e poter saltare la scuola in quei giorni.
Sentii l’aria fresca e umida di un tardo pomeriggio di marzo colpirmi il volto. Aveva smesso di piovere, ma l’odore di terra bagnata mi riempì le narici una volta uscita da quel posto infernale.
Lasciai scorrere lo sguardo indagatore della nonna mentre le ordinavo di passarmi le chiavi del pick-up che sicuramente aveva guidato Maya fino a lì. Con lei invece non mi ero scambiata nemmeno uno sguardo.
Aveva ragione, ne aveva passate tante in tutti quegli ultimi mesi, ma in quel momento riuscivo a provare uno strano senso di rabbia nei suoi confronti. Mi ero ripromessa di non giudicarla per il suo amore nei confronti di Mark. Ma in quel momento non riuscivo a comprende come diavolo aveva potuto riuscirsi. Come diavolo le era venuto in mente di ricattarlo dicendo che avrebbe raccontato tutto a Karla quando lei era la prima ad avere una relazione con lui. Sesso o sentimenti, lei ci era stata, quindi era tanto colpevole quanto Marta. E aveva pure rischiato la vita. Sarebbe potuta morire e io ci ero finita dentro tanto quanto lei.
Poi un pensiero sfiorò la mia mente. Marta aveva con sé un coltello. E se quella sera avesse trovato in casa la nonna? Mi fermai di colpo in mezzo alla strada. Strinsi i pugni e cercai di non immaginare nulla che potesse farmi male. Il mio respiro accelerò e dovetti piegarmi in due per fermare i conati di vomito che tentavano di sopraffarmi.
«Allison.», sentii chiamare per l’ennesima volta il mio nome in quella giornata. Ero stanca.
Sentii la nonna avvicinarsi e iniziare a sfregare le sue mani sulle mie spalle.
Mi alzai subito con la schiena dritta e mi allontanai da lei. Non volevo starle vicina perché avevo paura che sarei potuta crollare da un momento all’altro e non volevo questo. Volevo riprendere il mio controllo, allontanare i cattivi pensieri, magari non riuscire a pensare affatto e crogiolarmi in una sensazione di libertà e sentirmi appagata e amata.
Tutte quelle sensazioni mi fecero pensare al mio uomo. Volevo lui. Solo lui. Solo Richard riusciva a farmi dimenticare tutto, a farmi stare bene. E non ci pensai due volte quando presi la mia decisione.
Avrei dovuto dare delle spiegazioni alla nonna, parlarle, e avrei anche dovuto parlare con Maya; ma in quel momento quello che volevo era altro.
Mi voltai verso Maya e mi avvicinai a lei, le presi la mano tra le mie e ci racchiusi dentro le chiavi del pick-up. «Portala a casa e stai attenta.», le dissi seria guardandola dritta negli occhi. Volevo che sapesse che avremmo chiarito tutto una volta per tutte quando poi sarei tornata.
Maya non disse nulla e annuì convinta come a rispondere tacitamente a quello che in realtà non le avevo detto.
Poi passai oltre la nonna. «Nonna va’ a casa con Maya io tornerò poi.», le dissi, non volevo discutere.
Feci due passi e poi la sentii parlare. «Signorina!», mi richiamò con tono arrabbiato. Io non mi voltai. «Allison Rose Stone.», usò il mio nome completo, non lo faceva mai, soltanto quando era davvero infuriata.
Questa volta mi voltai ma quando la osservai in viso non vedi rabbia o delusione ma preoccupazione. «Non puoi stare con lui.»
Lo disse veramente. Quello che temevo avrebbe detto un giorno, lo aveva fatto nel mezzo di un parcheggio davanti a Maya e a Jones e ad altra gente.
Come aveva potuto dirmelo, lei non poteva dirmi con chi stare.
«Mi dispiace deluderti.», le risposi, «Io lo amo.», confessai. Poi le voltai le spalle e me ne andai.
Wow che capitolo …povera Allison… che stronza la poliziotta …permettersi di parlare in quel modo dei genitori di Allison…x fortuna tutto si è risolto …ora dovrà affrontare Richard…
Che bel capitolo lungo , povera Allison quante ne ha passate , ora vediamo come si comporterà Richard nei suoi confronti . Speriamo non ci farai attendere molto , ti ringrazio di cuore MIRIAM 💐💐💐 a presto !!!!!!
È bellissimo questo capitolo,grazie per aver aggiornato amo questa storia!La Fairchild è una stronza insensibile ma come si permette,non so ma forse c’entra qualcosa con il passato di Allison.So che la nonna di Allison non vuole per la nipote un uomo come Richard ma al cuore non si comanda…Allison si è sentita viva da quando ha conosciuto Richard.Non vedo l’ora del prossimo capitolo! ♡
bellissimo questo capitolo,non farci aspettare troppo per il prossimo….voglio sapere che fine ha fatto Richard….
grazieeeeee a presto
Ciao Miriam, complimenti per questa storia, Allison e Richard sono fantastici.
Leggo molto, spero tanto che non ci farai aspettare molto per il prossimo capitolo.
Sri veramente brava, continua COSÌ….🙂